(tutti di 17 anni, Settimana Giovani Romania)
Tutto è cominciato quel giorno in cui ci siamo incontrati a Ramon per la presentazione del campo.
Eravamo tutti lì seduti, convinti di dover scendere a Roma. Ma la parola Roma non fu mai pronunciata, al suo posto la Transilvania, nord-ovest della Romania.
Calò un profondo silenzio.
Dov’è la Transilvania?
No, io non vengo.
E’ una perdita di tempo.
Poi quando uscì anche la parola “rom” tutto ricominciò.
In molti abbiamo dubitato la nostra presenza a questo campo.
Non sono pericolosi? Non sono ladri? Riuscirò a comunicare?
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In 13 abbiamo detto sì, ci siamo messi in gioco. Qualcuno si è messo addirittura a studiare un po’ di rumeno per prepararsi al meglio.
Le paure, però, non mancavano:
Quale sarebbe stato il contesto che ci avrebbe accolto?
Come comunicare?
Saremmo stati all’altezza del compito affidatoci?
Ci saremmo messi in gioco mettendo in discussione i nostri pregiudizi?
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I giorni prima del campo corrono via veloci, i pensieri aumentano.
Arriva sabato 11 luglio: ci aspettano ben 1100 km di viaggio in pulmino.
Il paesaggio via via cambia, si arriva in Romania. Qualche km dopo Oradea, tutti i timori riemergono.
Da una città caotica e grigia, segnata visibilmente dal periodo comunista, si apre un paesaggio brullo, spesso degradato e quasi inaccessibile. Le strade sono piene di buche, di lavori in corso mai conclusi, di ponti tutt’altro che rassicuranti.
Già dall’arrivo nella casa che ci ospiterà emergono diversi i disagi: acqua letti e bagno.
Nulla paragonabile, tuttavia, a quanto manca nelle abitazioni di quei bambini che diventeranno i nostri compagni di viaggio.
Ci rendiamo conto di trovarci in una delle periferie citate anche da Papa Francesco.
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Arriva lunedì, il primo giorno di tabara, il loro grest estivo.
Partiamo in gruppo verso il quartiere in cui abitano i bambini rom.
Dopo un po’ di diffidenza da parte loro, si moltiplicano i bambini che ci seguono e che ci vogliono prendere per mano. Siamo noi ad essere intimoriti anche solo al pensiero di toccarli.
Alla fine saranno più di 50 a varcare il cancello della nostra abitazione.
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I giorni passano, ti lasci andare e li trovi simpatici anche se talvolta invadenti.
Più volte ci si chiede come possano essere così felici e cosa li spinga a presentarsi davanti al nostro cancello ogni mattina mezz’ora prima dell’inizio del grest, quando noi, assonnati, ci pare difficile pure fare colazione.
La risposta è semplice: non vedono l’ora di rivederci, abbracciarci e giocare spensierati.
Il problema della lingua a poco a poco si attenua in quanto noi cominciamo a intuire le loro richieste e i bambini, a loro volta, si avvicinano memorizzando le parole che usiamo più spesso.
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In un contesto dove appare ancora lungo il cammino per una maggiore qualità di vita (educazione, scuola, famiglia, igiene, salute, integrazione, …) anche in noi comincia ad emergere qualche segnale di cambiamento.
Lo si intravede anche solo nel ricambiare il loro affetto con abbracci sinceri, carezze e contatti capaci di rompere il muro dei fastidi iniziali.
Abbiamo così saputo stupirci e divertirci.
Il nostro impegno è stato ricambiato con grande gratitudine, affetto e consapevolezza di poter essere di aiuto per gli altri.
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Nel condividere questa esperienza riconosciamo la possibilità di un primo sostegno a queste realtà.
Questo vuole essere il nostro primo passo verso il rispetto di queste persone anche in Italia, essendo noi ora più consapevoli della mancanza di opportunità presente nel loro mondo.
Questo percorso che ci ha sfidati e talvolta messi in crisi, apre, nel nostro cuore, l’elemento del sogno.
Un sogno di giustizia, di miglioramento, di collaborazione, cui non sottrarci.