La Repubblica Democratica del Congo è un paese di cui sentiamo parlare e leggiamo molte storie che parlano di violenza, insicurezza e povertà. Tutte queste storie sono vere, ma spesso, così come vengono raccontate, contribuiscono a creare distanza. Distanza tra la nostra vita fatta di sicurezza e di benessere e una realtà lontana, costruita dal linguaggio della violenza e della fame. Forse è anche per questo che io, che amo e non temo viaggiare da sola, prima di partire ho avuto paura. Oggi, che sono tornata da tre settimane, la prima cosa che desidero dire è che ora ho molte famiglie al posto di una: nuovi amici, mamme e papà, sorelle e fratelli, nipoti. Il senso di insicurezza si è trasformato in senso di appartenenza. La quotidianità vissuta ha portato con sé conoscenza, piuttosto che paura; vicinanza e fiducia, piuttosto che diffidenza; forza, al posto di esitazione.
Il mio stage a Bukavu è stato innanzitutto un’esperienza affettiva. In questi tre mesi ci sono state decine di incontri preziosi, la sensazione di essere accolta con attenzione e di non essere mai lasciata sola, il piacere di condividere i pasti, il lavoro e le idee, la sorpresa di stringere legami profondi e di vivere le giornate appieno, in ogni istante, con un’energia insaziabile. Sento di dovere molto a tutti coloro che hanno speso parole, tempo e gesti per accogliermi e condividere con me la propria quotidianità: aprendomi la porta della loro casa, dandomi in braccio il loro bambino, insegnandomi a contrattare al mercato e a cucinare congolese, aiutandomi a fare il bucato a mano, portandomi a ballare, bussando alla mia porta per farmi compagnia, chiedendomi le cose più inaspettate per confrontarsi con me, facendo una battuta per farmi ridere, offrendomi da mangiare, o un letto, insegnandomi una lingua nuova e raccontandosi apertamente con me. Tutte queste persone, ora, fanno parte del mio album di famiglia immaginario, e ritorno ricca e nutrita prima di tutto per questo.
Questi mesi, poi, mi hanno dato molto anche dal punto di vista professionale. In primo luogo, ho trovato in Incontro fra i Popoli una ONG seria e trasparente, fatta di persone che credono in ciò che fanno. Durante il mio stage nell’associazione ho sperimentato una realtà lavorativa in cui le informazioni e i dati sono aperti e condivisi, il dialogo è un metodo spontaneo, la conoscenza delle realtà in cui si svolgono i progetti è vissuta sulla propria pelle e mai mediata da altri. Questo ho potuto viverlo da vicino anche una volta in Congo: IfP conosce per esperienza diretta persone, associazioni e luoghi in cui lavora oltreoceano, il dialogo con i suoi partner è intenso, il rapporto di collaborazione è basato sulla fiducia e l’indipendenza.
Una volta arrivata in Sud Kivu, mi sono immersa nel lavoro del Comité Anti-Bwaki, storico partner congolese di Incontro fra i Popoli. Il Comitato è composto di agronomi, veterinari, animatori sociali, ingegneri e video makers che ogni giorno si recano sul campo per la promozione della sicurezza alimentare, la costituzione di “Mutuelles de solidarité”, il rafforzamento dell’autonomia associativa, la costruzione di impianti idrici, l’introduzione di agroforesteria, rimboschimento e risicoltura. L’area d’azione del C.A.B. è una vasta zona collinare che circonda la città di Bukavu e che, tradizionalmente, è chiamata Bushi. In quest’area abitano molte famiglie che vivono del raccolto dei loro campi, e spesso ci vogliono ore di jeep per raggiungere i loro villaggi. Ho trovato gli operatori del C.A.B. molto preparati e allo stesso tempo umili e attenti nel loro lavoro di sensibilizzazione. Ho vissuto sulla mia pelle quanto sia importante la cooperazione locale, fatta di persone che conoscono la terra, i gesti e la lingua più di chiunque altro. Ho imparato molte cose dagli agronomi locali, con cui ho passato la maggior parte delle mie uscite, tra i campi, con la gente. Un po’ alla volta ho avuto l’opportunità di mettere in pratica l’etnografia, ciò che per tanti anni ho studiato sui libri universitari: quell’entrare in relazione con chi sembra così lontano, ma in fondo è così vicino a me.
Infine, ho incontrato la mia famiglia congolese di Cirunga: papà Zigabe, mamma Léonie e i loro figli e nipoti, che mi hanno accolta numerose notti sotto il loro tetto, hanno risposto alle mie inesauribili domande, mi hanno trattata come una figlia. Un ricordo tra i molti: le nostre serate attorno al fuoco della cucina, seduti sulla paglia, con il fumo che ti fa lacrimare gli occhi e il calore che ristora. Qui ho parlato di politica, scuola, lingue, cucina, agricoltura, legislazione e diritti con i ragazzi del villaggio. Qui ho mescolato il mio primo vero fufu, sotto gli occhi e la cura di mamma Léonie. Qui sentivo la radio, la sera, con papà ZIgabe e i suoi figli. Qui rimanevo in silenzio e ascoltavo il brusio delle case attorno, la stanchezza, le voci dei bambini prima di addormentarsi e il mio profondo senso di gratitudine ed emozione suscitato da questi incontri.